Foibe: il giorno del ricordo in casa Gigliotti

Nel giorno del ricordo, riproponiamo la toccante testimonianza di Lucio Gigliotti e le vicende legate alla sua famiglia in uno dei periodi più difficili e bui della storia italiana

«Lucio, ma prima o poi lo dirai che siamo triestini?» «Tasi tasi, hai ragione. Lo faccio», rispose il fratello minore alla sorella Mariuccia, di dieci anni più anziana, e da sempre abituata a prevalere nelle discussioni in famiglia. Famiglia che si chiama Gigliotti e il cui componente più giovane (appunto, Luciano detto Lucio) si era insediato stabilmente alla ribalta dello sport nazionale dopo la clamorosa vittoria di Bordin alla maratona olimpica del 1988.

Per tutti i cronisti, Lucio era modenese, e così attesta l’anagrafe dei residenti; ma le ragioni del cuore impongono di andare più indietro, anche a rischio di riaprire un passato terribile: e Mariuccia ricorda che fu proprio in una vecchia intervista a Correre che il fratello, da lei istigato, accennò per la prima volta alla patria d’origine. Le confessioni non si spinsero oltre, anche perché i tempi non erano maturi: al di là del comprensibile pudore degli interessati, c’entrava la maledetta politica, quella Realpolitik per la quale non tutti i morti in guerra sono uguali.

Un silenzio lungo sessant’anni

Di fronte a questo, Lucio Gigliotti ha scelto, per sessant’anni, un silenzio austero e dolente: e solo ora, quando di certe cose si comincia a parlare anche in via ufficiale, con l’istituzione della “Giornata del ricordo”, accetta di raccontare: ma il suo tormentato resoconto si interrompe spesso, ed è tentato di azzerarsi, di negarsi al cronista. E forse così sarebbe per sempre, se non intervenissero le ‘ripetute’ (con VO2 max) di Mariuccia, che  l’ha trascinato, nella loro città adottiva, all’inaugurazione di una mostra in tema, con relativa cerimonia commemorativa. Sebbene il risultato della mostra sia stato quello di far apparire la tragedia dei triestini e istriani una specie di logica conseguenza dell’oppressione italiana sulle popolazioni slave, anche a costo di scrivere bugie: Mariuccia si è sentita in dovere di chiedere al responsabile dove avesse letto la storiella che era stata proibita la messa in sloveno; lei che ad Aurisina per 12 anni poté sempre e soltanto ascoltare messe in quella lingua, e in italiano mai!

Per fortuna, la solidarietà umana è stata più nobile e decisiva delle ragioni – anche sordide – che avevano sradicato i Gigliotti dalla loro terra; e il dolore di quegli anni ormai lontani è in qualche modo lenito dal ricordo degli affetti che hanno contribuito ad alleviare lo strazio e predisporre verso una vita nuova.

La tragedia del 1943 e la fuga della famiglia Gigliotti

Scendiamo dunque – il più delicatamente che si può, ma con decisione – al 1943, forse l’anno più triste nella storia d’Italia, l’anno della disfatta e dei cento tradimenti consumati tra il 25 luglio e l’8 settembre. Ogni giorno che passava, per gli italiani della Venezia Giulia tirava un’aria sempre più pesante: tanto peggio per la famiglia Gigliotti, residente ad Aurisina, a monte di Opicina, il cui capofamiglia Albino, 45 anni, calabrese che aveva difeso l’Italia sul Carso nella Grande Guerra, poi stabilitosi lì e ora richiamato, era ancora in uniforme a combattere i “ribelli” titini (cui si era aggiunto il crudele rinforzo di italiani dall’origine slava o dalla fede politica che in loro era stata più forte della nazionalità), per salvare quello che ancora si poteva dell’unità nazionale.

Alla fine, nei giorni che precedevano l’armistizio, papà si risolse per un distacco doloroso ma obbligato: lui sarebbe rimasto al suo posto, fedele al giuramento di militare e agli ordini ricevuti; ma la moglie Valeria coi tre figli (Mariuccia di 19 anni, Pino di 15, Lucio di 9) dovevano correre in luogo più sicuro. Venne buona un’amicizia della figlia maggiore con una compagna di scuola al Magistero di Firenze (la facoltà universitaria dove le maestrine studiavano per diventare direttrici didattiche o insegnanti di scuola media): si chiamava Lisa e abitava sull’Appennino modenese, poco sotto il passo dell’Abetone, una zona ancora relativamente tranquilla. Le arrivò una lettera da Trieste: era Mariuccia, che in poche parole le scriveva: «Dobbiamo andarcene da qui: puoi trovarci un buco dalle tue parti?». L’alloggio si trovò, nel paesino di Riolunato, e Lisa poté rispondere positivamente.

La dolorosa separazione e la vita in esilio

Era il 10 settembre quando papà Albino, in divisa e col suo attendente, accompagnò la famiglia alla stazione di Aurisina. La caserma adiacente traboccava di uomini in mutande e canottiera: soldati, che in mancanza di ordini e di capi («Difendersi dagli attacchi da qualunque altra parte provengano», diceva la radio), cercavano di cancellare le tracce della propria italianità (a poche centinaia di chilometri, ma per sua fortuna non in zona di confine, da Asolo di Treviso un altro soldato riuscì con mezzi di fortuna a raggiungere la propria terra natale, Modena: si chiamava Franco Anderlini, il futuro artefice dei trionfi della pallavolo modenese).

Papà Gigliotti fece salire i suoi cari sull’ultimo treno, rifiutò da uomo d’onore l’ultimo disperato appello della moglie a seguire lei e i ragazzi. All’improvviso irruppero in stazione “gli altri”: si presero tutto, fu già un miracolo che donne e ragazzi riuscissero a partire, ma Albino scomparve alla vista. Dopo qualche giorno, i Gigliotti arrivarono a Riolunato: «Non avete borse, valigie?», fu la domanda di Lisa. Mamma Valeria si frugò in una tasca e ne estrasse un tovagliolino da tè: «Ecco cosa ci è rimasto».

L’orrore delle foibe

Dopo qualche tempo, la mamma fu richiamata nei luoghi d’origine. Per le alterne vicende della guerra, gli italiani avevano riconquistato un po’ di terreno, e lì avevano scoperto quello che di orribile qualcuno raccontava, senza essere troppo creduto. Le foibe, caverne scavate dall’acqua, ora piene di un numero immane di cadaveri (li si contava a metri cubi). Molti erano stati scaraventati dentro ancora vivi, legati con filo di ferro a un compagno, ucciso e spinto nel baratro in modo che trascinasse l’altro. In una coppia di martiri, mamma Gigliotti riconobbe Albino legato al suo attendente; né le fu difficile sapere che i responsabili erano dei vicini di casa (come spesso accadeva), anche se rifiutò sempre di fare quei nomi alle truppe tedesche d’occupazione, per evitare ulteriori rappresaglie sui civili.

Il ritorno a Modena e una nuova vita

Non ci furono e non ci sono parole per quel dolore che solo gli umani sanno produrre nei propri simili. Ma la vita dovette continuare: l’inverno era freddo (specie se commisurato ai vestitini estivi del piccolo Lucio), e la linea gotica era troppo vicina per poter stare tranquilli. La famiglia dei giovani orfani scese nella bassa modenese, tra i territori di Carpi e di Mirandola: all’ordine del giorno erano gli spezzonamenti e le mitragliate di “Pippo”, l’aereo alleato che non guardava tanto per il sottile tra gente in divisa o donne con bambini; e, purtroppo, ci si aggiungeva la guerra civile col suo corredo di spietatezza fratricide. Ricorda Lucio che una notte si presentarono davanti alla porta della casa dove i Gigliotti erano sfollati alcuni sedicenti partigiani, con l’intento di prelevare il fratello maggiore Pino per portarlo “a ballare”: la sorella Mariuccia svenne, ma mamma Gigliotti fece scudo col suo corpo e riuscì ad evitare questa nuova catastrofe.

Una nuova speranza con la pasticceria di famiglia

A guerra conclusa, il trasloco definitivo a Modena. Mariuccia, che dal ’44 aveva trovato impiego alla Mutua, venne licenziata dal nuovo Capo (uno che, in nome della democrazia e secondo la nascente moda americana, metteva i piedi sulla scrivania), dopo una sola domanda: «Hai fatto la partigiana? No? allora via di qui». Nell’immediato vennero buoni quattro quintali di farina, distribuiti nelle settimane precedenti dall’ammasso collettivo per sottrarli alle prevedibili requisizioni tedesche. Mamma Valeria, per sfamare i figli, un giorno preparò otto pinze, in sostanza un pane raddolcito dai fichi e, in segno d’amicizia, ne portò una alla drogheria sotto casa, in via S. Eufemia a Modena (vicino alla facoltà di Farmacia, dove un curioso dottorino insegnava Fisiologia umana: si chiamava Luigi Di Bella). Quel dolce piacque tanto che la sua autrice venne pregata di farne altri, regolarmente spazzati via dal negozio ogni mattina. La voce giunse al vicino fornaio di via S. Agostino, che faceva il giro dei bar a portare le torte: «Mi hanno detto che c’è una signora veneta che fa un dolce tanto buono…».

Così, tutte le mattine, alle 4 da casa Gigliotti presero a uscire pinze, gubane e dolci vari, finché la famiglia non decise di mettersi in proprio, aprendo in un’altra stradina del centro, via Gallucci, “La Veneta”, come appunto era chiamata mamma Valeria. Era il Natale del 1945, i figli poterono prima sfamarsi e poi studiare: Pino da ingegnere, Lucio da maestro; ma cominciò a coltivare un’altra passione: alle scuole medie, poi al ginnasio nell’istituto del Sacro Cuore, conobbe il professor Nando Ponzoni (già docente, con Luciano Fracchia, alla prestigiosa scuola della Farnesina di Roma), che provò a essere, per il giovane profugo, quello che più gli mancava: un padre. E, in secondo luogo, un insegnante di sport.

Lo sport e la svolta della carriera

Sotto la sua guida, nel 1949 Lucio vinse la prima campestre in carriera, alla Città dei Ragazzi, un posto ancora immerso nel verde, dove tanti ragazzi senza famiglia, o con una famiglia non in grado di assisterli, erano accolti e imparavano un mestiere di artigiano. La gazzetta locale mise a titolo che la competizione era stata vinta dal “profugo giuliano Gigliotti Luciano”, davanti a Dino Cerrato pure lui giuliano (che, per la verità, era stato in testa sin quasi al traguardo, ma alla fine aveva sbagliato strada); una foto dell’evento ritrae, sul teatro della campestre ma un po’ decentrato (certo lui non aveva vinto), Luciano Pavarotti, altro futuro maestrino e, quanto a pratica sportiva, soprattutto portiere di calcio.

Per Lucio, conseguito anche il diploma all’Isef di Roma, ci fu il rientro a Modena come professore di ginnastica nell’istituto per geometri. E alla pratica atletica, che lo vide per tre anni a capo di una squadra messa su dal grande Peppino Panini (quello, ovviamente, delle figurine, e della pallavolo affidata a Franco Anderlini), Gigliotti affiancò quella del rugby. Ancora negli anni Sessanta, a Modena non c’erano campi appositi da rugby: per far giocare la sua squadra (di serie B), Lucio doveva rubare al calcio ritagli di ore dai due campi allora detti “della Fratellanza” (antistadio Braglia) e “del Villaggio Artigiano”. E se il calcio non voleva abdicare ai suoi diritti, toccava al professor Gigliotti ottenere dalla Federazione il rinvio della partita di rugby.

Come rivincita postuma, su quello che fu il campo del Villaggio Artigiano è sorta la palestra indoor della Fratellanza (recentemente rinnovata), dove Lucio Gigliotti, non più “profugo”, ma modenese per quasi tutta l’opinione pubblica, distribuisce i suoi insegnamenti. Ma il tempo della gloria non cancella il ricordo degli anni del dolore, della fuga e dell’approdo insaporito dal pane coi fichi, nella consapevolezza che i meriti personali affondano le proprie radici nel sacrificio e nell’eroismo di chi non c’è più.

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