Lucio Gigliotti compie 90 anni: auguri “Proffe”

Luciano “Lucio” Gigliotti è nato ad Aurisina (TS), il 9 luglio 1934. Anche Correre festeggia i 90 anni dell’allenatore che in maratona ha costruito le carriere di Gelindo Bordin, Stefano Baldini e Maria Guida. Ecco una sintesi della lunga intervista pubblicata nel numero di luglio.

Il 9 luglio sono 90 anni. Superfluo ribadire che non li dimostra? 

Luciano Gigliotti, istriano di nascita e modenese d’elezione, ha lo spirito di un ragazzino e la coscienza di un veterano. Non ha mai corso una maratona, eppure sulla distanza detiene un gran record. È sua la firma dietro gli unici ori olimpici azzurri sui 42 km: Gelindo Bordin nel 1988 a Seul e Stefano Baldini nel 2004 ad Atene.

Lucio Gigliotti: il Professor Fatica

Luciano Gigliotti è il Professor Fatica, come titolava il libro che si regalò per gli 80 anni. Professionista dei miracoli, collezionista di capolavori. Una carriera costruita nella Motor Valley non poteva che annoverare una scuderia di campioni: oltre a Bordin e Baldini, Maria Guida (oro nella maratona agli Europei di Monaco di Baviera 2002), Alessandro Lambruschini (bronzo olimpico ad Atlanta 1996), Carlo Grippo (finalista negli 800 m alle olimpiadi di Montreal 1976) e Vittorio Fontanella (quinto nei 1.500 m alle Olimpiadi di Mosca 1980).

Quanto conta per lei lo scorrere del tempo?

«Dico sempre per scherzo, che poi non è tanto uno scherzo perché lo sento proprio sulla pelle, dico sempre che “Ho la valigia pronta”. È chiaro che ti guardi dietro, ma soprattutto non guardo più avanti. Lo so che è negativo ma non ho più stimoli per farlo, in tanti me lo rimproverano».

«L’amarcord, il passato, fa parte della mia vita – spiega Lucio Gigliotti – Mi guardo indietro con molta serenità, con la gioia interiore di aver avuto la possibilità di vivere e crescere coi giovani. Ancora più importante è stato vederli diventare adulti affermati nella seconda parte della loro vita. Quella in cui li accompagni a smettere, che è la parte più difficile. Trovarsi faccia a faccia con un Panetta o un Lambruschini e chiedergli “Mo che famo? Mica andremo ancora avanti, no?”. Per loro è dura, perché correre era la cosa che amavano più fare. Ma quando vedi che si realizzano anche nella vita, magari sai che la fatica dell’atletica gli ha insegnato che il lavoro paga».

«Guardarmi indietro è qualcosa di bello, non rimpiango niente, anche se ci sono momenti difficili nella carriera di un allenatore, dove le cose non vanno come tu avresti voluto. Devi essere bravo a guardarti dentro, analizzare dove sei tu ad aver sbagliato senza cercare alibi. L’ho insegnato anche ai miei ragazzi: che arrivino secondi, terzi o quarti non importa, devono sempre stringere la mano agli avversari che li hanno battuti».

«Ho smesso di allenare lo scorso anno e il mio ultimo rapporto con la Federazione risale a quell’operazione lanciata nel 2012 e legata alla nomina di Direttore Tecnico del settore giovanile di Stefano Baldini, che mi volle insieme a Pierino Endrizzi e Gabriella Dorio per tenere agganciati i ragazzi più promettenti in una sorta di raccordo fra centro e periferia, cosa che oggi non c’è più. Forse è uno dei motivi per cui ho chiuso».

Quando mise piede per la prima volta in pista?

«Nel ’49, nel dopoguerra. Ho conosciuto l’atletica nel cortile del Sacro Cuore di Modena – ricorda Lucio Gigliotti – un collegio di salesiani dove ebbi la fortuna di incontrare quello che per me è stato un secondo padre, il Professor Nando Ponzoni. In quel cortile facevamo salto in alto, salto in lungo, facevamo le corse di velocità, le corse di resistenza, non vedevamo l’ora che arrivasse quel quarto d’ora di ricreazione perché ci scatenavamo. Erano altri tempi».

«Mi misero in collegio perché ero “biricchino”, feci molto male la prima media e in collegio mi raddrizzarono un po’ i preti ma soprattutto il Professor Ponzoni: il primo a farmi amare l’atletica, amare lo sport, amare il movimento in generale».

«Da piccolo ho giocato a pallacanestro, verso i 18 a rugby e poi l’atletica divenne la passione più importante di tutte. Questo campo, il famoso campo scuola de La Fratellanza 1874, ancora non esisteva e ci allenavamo allo stadio Braglia, dove il custode era un certo Ettore Tavernari, che ha detenuto il record italiano sui 500 per non so quanti anni. In quegli anni noi mezzofondisti eravamo ancora più vicini ai Dorando Pietri che agli atleti che vennero dopo».

Quando vide per la prima volta Stefano Baldini?

«Dev’essere stato a una campestre regionale, poi di nuovo in un raduno al Sestriere. Ma il contatto che mi piace ricordare è quanto quando Emilio Benati, il suo primo mentore, me lo portò a un raduno a Tirrenia. “Lucio, il ragazzo ha delle qualità e ti chiedo di allenarlo, perché io faccio un altro mestiere e non è giusto che mi aspetti fino alle 7 di sera” mi disse. Io gli proposi di aiutarlo con i programmi ma “Guarda che se non lo prendi tu, lo porto a Ferrara” replicò Benati. E così accettati, perché tra me e Giampaolo Lenzi, c’era una certa competizione sportiva, da veri amici. Era il 1992, ci vollero 12 anni per coronare l’operazione Baldini con l’oro olimpico di Atene. E mi piace pensare che tutto quello che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto tutto a pane e acqua».

Come è cambiata l’atletica?

«L’atletica non è cambiata di molto: chilometri e fatiche sono le stesse. Anche la metodologia è cambiata solo in certi aspetti. Sono i materiali a essere cambiati ed è cambiato il numero degli atleti di livello. All’epoca gli avversari li conoscevamo tutti e conoscevamo anche le caratteristiche di ognuno, oggi saltano fuori maratoneti da 2h02’ e non sai neanche chi siano».

«C’è un problema legato al doping della tecnologia, se possiamo dire così. Nasce dal salto con l’asta, passa dal materiale della pista – che a Parigi avrà una risposta elastica ancora migliore che a Tokyo – e nel nostro caso riguarda le scarpe. C’è chi lo riconosce e chi sostiene che i miglioramenti siano solo merito della propria metodologia di allenamento ma, ribadisco, la metodologia non è cambiata molto. Franco Arese, Gianni Del Buono e Renzo Finelli non avevano niente da invidiare al Pietro Arese, al Federico Riva o al Osama Meslek di oggi: erano forti uguale, solo erano atleti di 50 anni fa».

«A cambiare è stata l’organizzazione: noi avevamo un altro modo di vedere e gestire le cose, facevamo tanti raduni, insieme agli atleti facevamo crescere anche gli allenatori. Ho estrema fiducia nei tecnici nati nel solco delle nostre esperienze e dal travaso delle nostre idee: dai Ghidini agli Incalza, dai Baldini ai Pegoretti, passando per i Giambrone del Tuscany Camp. Tecnici che stanno lavorando anche al di fuori della federazione e vanno avanti per la loro strada, i cui risultati dicono che stanno facendo ancora meglio di noi. Non basta pagare gli allenatori e gli atleti di alto livello e mettere il timbro sulle buone prestazioni. E il filo conduttore con il centro? Se le cose vanno bene è proprio grazie al lavoro dei tecnici». 

Quale atleta l’ha sorpreso di più?

«La sorpresa è legata alla forza mentale dimostrata dai due atleti che hanno raggiunto il risultato più difficile, la medaglia olimpica. Il primo a sbalordirmi fu Bordin a Seoul, in quelle condizioni e contro avversari che lo avevano sempre battuto. Baldini ad Atene era più che in forma, era in uno stato di grazia, ma è stato anche lo stato mentale a fare la differenza».

«Dico “sorpresa” perché la potenza del cervello è un surplus difficile da quantificare, per quanto noi allenatori cerchiamo sempre di valutarla attraverso la reazione alla fatica dell’allenamento e la motivazione che vediamo crescere nel corso della preparazione. Dico “sorpresa” perché non ero riuscito a valutare in anticipo quanto Stefano e Gelindo sarebbero riusciti, quel giorno, a sopportare fatica e dolore fisico».

Qual è il suo miglior pregio come allenatore?

«Credo di dare qualcosa di più rispetto sul piano umano. La capacità di trasmettere e di comunicare, il carisma e la leadership sono qualità che non si studiano sui libri e si comprano al supermercato: le hai o non le hai. Negli anni si possono migliorare, questo sì».

«Sono sempre stato contrario ai mental coach, perché sono io il mental coach dei miei atleti: sono io che ho lavorato con loro, è tra noi che si è creato questo connubio e questo travaso di conoscenze».

Cosa significa essere allenatore?

«Quello tecnico-atleta è un rapporto di vasi comunicanti: è importante l’input che io ti do, ma è ancora più importante la risposta che tu mi dai».

«Oggi vedo che si allena per corrispondenza con estrema facilità, io invece sono sempre stato un uomo da campo, mattina e pomeriggio, e i miei Baldini, i miei Bordin e la mia Maria Guida se lo ricordano, persino Grippo, per quanto fosse un piccione viaggiatore».

«Poi all’epoca noi facevamo molti raduni, Baldini mi ricorda che passavamo dai 160 ai 180 giorni all’anno via da casa. Nella mia vita ho passato un anno in Namibia, a forza di raduni in Namibia da una ventina di giorni l’uno. C’è da dire che ho sposato una gran donna, che ha avuto la forza di sopportare un marito con questo tipo di vita. È così, però, che sono cresciuto insieme ai miei atleti ed è questo il tipo di rapporto di cui ho sempre avuto bisogno».

C’è un atleta che le piace in particolare?

«Mi piace l’atletica di alto livello. Vivo di Diamond League – rivela Lucio Gigliotti – di gare in cui con 12’50” rischi di arrivare decimo in un 5.000 m. Ho visto dal vivo dieci Olimpiadi, una da turista a Roma nel ’60 e nove da allenatore. A Roma ci andai con il Professor Ponzoni, il mio mentore, e passammo un mese tra i campi delle Tre Fontane e dell’Acqua Acetosa, io avevo sempre in mano una Super 8 e ci facevo filmini a Berruti e Morale che facevano gli allunghi, ai lanciatori americani che in allenamento sparavano delle bordate, a Brumel e Shavlakadze che facevano il salto in alto, dei ricordi bellissimi».

«Le Olimpiadi mi hanno portato a questa deformazione professionale che è quella di apprezzare molto l’atletica di alto livello. Quando vengo al campo e vedo certi allenamenti e vedo che i ragazzi sono contenti… li prendo da parte e gli dico “Ma guarda che non hai fatto niente”. Loro mi guardano sbigottiti e io “Sì ragazzi, bisogna spingere di più, il sogno deve essere più impegnativo” gli dico. Bisogna coltivarlo e coltivarlo, questo sogno, devi essere molto motivato, molto presente, molto determinato, molto continuo».

Cosa rappresenta l’atletica oggi nella sua vita?

«All’alba dei miei 90 anni, fisicamente comincio ad avere poca autonomia e dopo due ore di campo mi stanco. Non vado neanche più a trovare gli amici dell’Isef, un po’ anche perché mi rattrista constatare che siamo sempre meno».

«Seguo l’atletica dei Duplantis e degli Ingebrigsten, ma col cuore sono ancora legato ai ragazzi dell’ “Operazione Baldini”: Simone Barontini, Pietro Arese, tutti i ragazzi che sono usciti da quei 4-5 anni di attività giovanile fatta bene, con Tonino Andreozzi ottima spalla di Baldini… prima che Stefano facesse quella cavolata di dimettersi che a me non piacque per niente».

«Avevo detto che non allenavo più. Poi la Francesca (Bertoni, siepista azzurra ndr), che è ancora molto motivata, mi è venuta sotto con un “Dai Prof Lucio Gigliotti” e avevo già riempito quattro mesate di lavoro sulla mia agenda… poi però l’ennesimo infortunio e negli ultimi due mesi l’agenda è rimasta in bianco». Silenzio.

«Sì, non alleno più».

Al lettore: questo testo rappresenta una sintesi del servizio “Prof. Gigliotti Luciano, nato ad Aurisina (Trieste)…”, pubblicato su Correre n. 447, luglio 2024 (in edicola da inizio mese), alle pagine 16-27.