Scienza, resistenza e avventura: la storia di Sofia Fatigoni, una ricercatrice che sfida i limiti, tra il Big Bang e il freddo estremo
Sofia Fatigoni esplora l’universo con due strumenti: il telescopio e le sue scarpe da running. Astrofisica italiana con un dottorato alla University of British Columbia (UBC) di Vancouver, oggi lavora come ricercatrice al California Institute of Technology (Caltech) sul progetto BICEP Array, un esperimento che studia la radiazione cosmica di fondo, il segnale primordiale lasciato dal Big Bang.
Per portare avanti questa ricerca, Sofia ha trascorso diversi mesi in Antartide, installando e manutenendo i ricevitori del telescopio BICEP Array alla stazione Amundsen-Scott, al Polo Sud. In un ambiente estremo, con temperature fino a -50°C e ossigeno rarefatto, Sofia Fatigoni conduce esperimenti di cosmologia, ma continua anche a coltivare la sua passione per la corsa, sfidando il ghiaccio e il vento per allenarsi in uno dei luoghi più inospitali del pianeta.
Sui social e in particolare sul suo profilo Instagram @chukka_inspace racconta il suo lavoro e la sua esperienza, dimostrando che la scienza e lo sport condividono lo stesso spirito: resistenza, determinazione e la voglia di spingersi sempre oltre.
Tra turni di lavoro di 10-12 ore al giorno, riesci a ritagliarti del tempo libero? Come lo trascorri?
«Trovare tempo libero non è semplice, e il lavoro qui è così fisicamente impegnativo che spesso si è troppo stanchi per fare qualsiasi cosa. Ma quando posso, corro.
Correre al Polo Sud è estremo: la temperatura del vento in estate varia tra i -35 e i -50°C, il rischio di ustioni da freddo è altissimo e l’altitudine, unita al basso livello di ossigeno, rende ogni sforzo più pesante. Per proteggermi dall’aria gelida devo correre con un passamontagna davanti alla bocca, il che rende ancora più difficile respirare. E poi c’è il terreno: neve fresca, che assorbe ogni appoggio come la sabbia.
Eppure, correre qui è anche un’esperienza unica. Quando mi allontano di 5-6 km, la base scompare dall’orizzonte e la sensazione è intensa: da un lato so che quella struttura è la nostra “astronave”, l’unico rifugio in un ambiente inospitale; dall’altro, mi sento completamente sola, su un pianeta sconosciuto, calpestando ghiaccio che forse nessun altro essere vivente ha mai toccato prima. Correre qui significa essere davvero soli con se stessi».
Vivere al Polo Sud significa adattarsi a uno stile di vita estremo: cibo razionato, solo due docce da due minuti a settimana. Come ti ha cambiata questa esperienza rispetto alla tua prima volta, cinque anni fa?
«L’Antartide mi ha cambiata moltissimo. Qui ogni risorsa è limitata e nulla può essere sprecato: l’acqua che beviamo è neve sciolta, il cibo è per lo più congelato e spesso scaduto da decenni. Abbiamo una serra che ci permette di mangiare qualcosa di fresco, ma solo un’insalata ogni due o tre settimane. Anche la logistica quotidiana è una sfida: l’edificio in cui lavoro è a un chilometro dalla stazione e non ha acqua corrente, il nostro “bagno” è una lattina che svuotiamo in un barile.
Un dettaglio curioso, legato alla corsa: mentre gli atleti in tutto il mondo si affidano a gel e integratori, il mio carburante per una mezza maratona sul ghiaccio sono stati dei biscotti scaduti nel 2008. Questa esperienza mi ha insegnato quanto siano preziosi i comfort della vita quotidiana e come l’adattamento sia la chiave per superare ogni limite.»
Parlando della tua passione per la corsa, com’è stata l’esperienza della “Corsa di Natale intorno al Mondo”?
«La corsa intorno al mondo è una tradizione che va avanti da decenni al Polo Sud, ogni anno, il giorno di Natale. È una corsa breve, circa 4 km, che passa intorno al Polo geografico e attraversa quindi letteralmente tutti i meridiani. Alcuni completano il percorso camminando, altri correndo, altri con gli sci. È sempre divertente e sicuramente un modo per stare tutti insieme il giorno di Natale, quando inevitabilmente si sente un po’ la mancanza di casa.
L’anno scorso sono arrivata prima nella corsa intorno al mondo, completandola in 18 minuti. E come da tradizione, ho vinto una doccia di 5 minuti il giorno di Natale.»
Foto: Michael Rayne
Sei stata la prima donna e seconda assoluta alla Mezza Maratona del Polo Sud, la più estrema al mondo. Ci racconti questa esperienza?
«Unica e durissima. Ho aiutato a tracciare il percorso, che avrebbe dovuto essere di 21 km ma, a causa del GPS impreciso, si è rivelato più lungo. Il giorno della gara il meteo era tremendo: -45°C, vento forte, visibilità sotto i 500 metri. Molti erano preoccupati, ma per me correre in queste condizioni è la normalità. E poi diciamoci la verità, se si vuole sperimentare “correre al Polo Sud” fino in fondo, bisogna correre in queste condizioni. Questo è l’Antartide: imprevedibile e spesso arrabbiata.
Dopo il primo giro sono passata dalla base per bere (acqua e biscotti scaduti nel 2008!) e il medico, non credendomi quando dicevo di stare bene, mi ha controllato la temperatura prima di farmi proseguire. Ho chiuso come prima donna e seconda assoluta. Su 19 partiti, solo 6 hanno finito, alcuni camminando.»
Quali accorgimenti usi per l’abbigliamento e le scarpe, considerando le condizioni estreme?
«L’abbigliamento è fondamentale, e ho impiegato tempo (e diverse ustioni da freddo) per trovare la combinazione giusta. Dipende molto dal vento, ma di solito indosso due paia di pantaloni, un giacchetto antivento con più strati sotto, due paia di calzini e scarpe da trail. Per il viso, lascio scoperti solo gli occhi grazie a cappello e scaldacollo. I guanti sono essenziali: perdere sensibilità alle mani è un rischio concreto, e mi è già successo… mentre ero ancora lontana dalla base.»
Quando corri in quel deserto innevato, hai mai paura di perderti? Pianifichi percorsi specifici o ti affidi ai tuoi passi?
«Di solito corro a lato della “pista” su cui atterrano gli aerei, che è un percorso tracciato da bandierine e si estende per circa 2 km. Poi continuo oltre. Ma in una giornata a visibilità decente non è difficile ritrovare il percorso.»
Foto: Michael Rayne